Siamo nel pieno di una calda estate. Ma questa volta non ci sembra una occasione di pause rilassanti ma piuttosto si prospetta carica d’ansia e di incertezze, ancor più dopo gli esiti Parlamentari che ci porterà a nuove elezioni nelle prossime settimane.
Non mancavano certo già grosse difficoltà per il sistema economico e produttivo del nostro Paese per la pandemia, la guerra in Ucraina, le crisi energetiche e climatiche da affrontare.
I tempi frenetici e le dinamiche repentine del mondo moderno non si conciliano con i ritmi scanditi dai cicli stagionali dell’agricoltura ed in particolare dell’agricoltura delle aree interne che sembra viaggiare con ritmi inversamente proporzionali a quelli delle attività economiche degli altri settori.
Osservando poi gli scenari aperti dalle crisi dei tempi recenti non possiamo non notare quanto la progressiva marginalizzazione delle attività agricole delle aree interne coincida con l’altrettanto progressiva tendenza dei mercati ad approvvigionarsi di quantitativi di massa e da produzioni intensive e magari estere. E solo a seguito di eventi eccezionali come il conflitto in Ucraina, ci accorgiamo che forse favorire gli scambi internazionali per ragioni squisitamente economiche ed a scapito delle produzioni locali, ci ha rende dipendenti e non autosufficienti anche per le materie prime alimentari.
D’altro canto, i recenti dati statistici diffusi da Istat ci dicono che in Italia le aziende agricole sono diminuite a 1.133.023 con un calo del 30% nell’ultimo decennio. La Campania detiene il primato nazionale con un calo a dir poco allarmante che si è attestato al 42%. Il dettaglio del dato potrà sicuramente confermare che tale calo riguarda principalmente le aree interne ed in particolare le aree svantaggiate. L’altro dato allarmante riguarda il progressivo invecchiamento della popolazione agricola che oggi registra circa il 60% degli operatori oltre i 60 anni di età e solo il 6% al di sotto dei 30. Anche il numero degli addetti in agricoltura registra un calo importante: -27,3% con 2,8 mln di addetti.
E’ paradossale assistere a questo silenzioso e drammatico fenomeno in questo momento storico che vede al centro dell’attenzione pubblica l’interesse per la tipicità delle produzioni locali, il valore paesaggistico del territorio, la qualità di vita più a misura d’uomo nei piccoli centri rurali. Come pure stride con la realtà produttiva che vede ridotto drasticamente il numero delle aziende attive a fronte della crescente e già ricca varietà e quantità di prodotti tipici riconosciuti PAT (Prodotti Agroalimentari Tradizionali) strettamente connessi quindi con l’agricoltura, la pesca e l’allevamento locali. La riprova è sempre la Regione Campania che detiene il primato nazionale del numero di prodotti riconosciuti PAT (ben 580) e al contempo, registra il maggior calo di aziende (-42%).
Detto questo è evidente dai numeri che NON sono stati efficaci gli interventi messi in campo fino ad oggi dalla politica e dalle istituzioni:
- Perché non hanno funzionato gli incentivi per favorire il ricambio generazionale nella conduzione aziendale?
- Sono state insufficienti le risorse messe in campo per accompagnare l’ammodernamento tecnologico delle aziende?
Probabilmente entrambi, ma a questo punto è chiaro che manca una direzione di marcia!
Il Bel Paese - noto ed invidiato in tutto il mondo per il suo straordinario patrimonio gastronomico, patria della Dieta Mediterranea iscritta il 16 Novembre 2010 dall’UNESCO nella Lista del Patrimonio Culturale Immateriale dell'Umanità, su proposta di Italia, Spagna, Grecia, Marocco, definita “un insieme di competenze, conoscenze, riti, simboli e tradizioni, che vanno dal paesaggio alla tavola” e dichiarando che …è molto più che un semplice elenco di alimenti. Essa promuove l'interazione sociale, poiché il pasto in comune è alla base dei costumi sociali e delle festività condivise da una data comunità, e ha dato luogo a un notevole corpus di conoscenze, canzoni, massime, racconti e leggende. La Dieta si fonda nel rispetto per il territorio e la biodiversità, e garantisce la conservazione e lo sviluppo delle attività tradizionali e dei mestieri collegati alla pesca e all'agricoltura nelle comunità del Mediterraneo" - perché non è stato capace di riconoscere questo suo patrimonio come valore da preservare e da valorizzare?
Come ha potuto proprio l’Italia consentirsi di perdere il 30% di questo suo patrimonio produttivo (quasi 400.000 aziende) e il 27% degli addetti (oltre 750.000 lavoratori) a dieci anni dal riconoscimento della Dieta Mediterranea a Patrimonio Immateriale dell'Umanità?
E ci si chiede: con quali prospettive operano oggi le attività agricole, dell’allevamento e della Pesca nel nostro Paese?
Siamo proprio certi che le aree interne siano da destinare a rimanere economie marginali? Ed è proprio trascurabile l’effetto irreversibile dell’abbandono dei territori e dello spopolamento dei piccoli comuni?
Se proprio fosse così, quali sono gli effetti positivi che ci consegna questa sfrenata globalizzazione della filiera del cibo? al momento 400.000 aziende chiuse e 750.000 posti di lavoro persi!
Ah, Potrebbe andare peggio nel prossimo decennio.
Forse è proprio il caso di cambiare direzione di marcia!
RIPARTIRE DALLE AREE INTERNE
ACLI TERRA DELLA CAMPANIA